TEGLIO
Palazzo Besta

Teglio, situato a 900 metri di altitudine, domina la valle dalla sponda retica con la sua torre medioevale ed è uno tra i borghi più ricchi di storia della Provincia di Sondrio.

Palazzo Besta, che fu dimora di Azzo II Besta e Agnese Quadrio, è il simbolo del suo glorioso passato. L’antico maniero medievale, rinnovato secondo il gusto rinascimentale nel Cinquecento, è divenuto proprietà dello Stato ed è Museo Nazionale. Dotato di un ricco apparato decorativo sia sulle pareti affacciate al cortile interno, sia nelle sale, ospita nel Salone d’Onore, al piano nobile, il ciclo affrescato dell’Orlando furioso. L’opera è attribuita a Vincenzo De Barberis da Brescia e al nipote Michele; il pittore, che visse a Talamona e risulta particolarmente attivo in Valtellina, fu a Mantova tra i collaboratori di Giulio Romano a Palazzo Te.

Si tratta della raffigurazione più vasta a tema ariostesco, essendovi illustrate ventiquattro scene, di cui tre perdute, disposte come sequenze di una ideale rappresentazione teatrale. Gli affreschi descrivono vizi e virtù attraverso le vicende di quattro personaggi, Gabrina, Ginevra, Angelica e Astolfo e propongono alcune personificazioni di vizi, come lo Sdegno, la Discordia o la Cupidigia. Ogni riquadro è sormontato da un busto clipeato ed è accompagnato da un motto latino, tratto dagli Adagia di Erasmo da Rotterdam, che ne orienta la lettura in senso morale. In alcune scene si esprime la critica alla corruzione e all’amore per il denaro che divora potenti, laici ed ecclesiastici. Facile leggervi la vicinanza agli ideali di rinnovamento spirituale, in un momento in cui la Valle, per le sue vicende storico-politiche, veniva percorsa e frequentata da intellettuali sensibili ai valori umanistici e alle istanze della Riforma. Tra questi, il dotto Ortensio Lando, forse uno dei registi delle scelte decorative effettuate dai signori del palazzo. Anche nel ciclo tellino si riscontra il legame con l’edizione giolitina dell’Orlando furioso

Via Fabio Besta, 8, 23036 Teglio SO

Storia di Gabrina

  • Il giovane Filandro viene ferito in un’impresa e viene accolto nel castello dell’amico Argeo per essere curato. La perfida Gabrina, moglie di Argeo, tenta di sedurre Filandro.
    Il motto che si accompagna all’immagine recita “Sub cultro liquit” (sic), (Erasmo, Adagia, 2.10.83) con riferimento alla Satira IX di Orazio, “Sub cultro linquit”, ovvero “fugge e mi lascia sotto il coltello”. Come Orazio non riesce a liberarsi del seccatore che lo importuna, così Filandro è impossibilitato a muoversi e non può scacciare Gabrina.

    Gabrina tenta di sedurre Filandro
    Vincenzo e Michele de Barberis, XVI secolo.
    Palazzo Besta, salone d’onore.

  • Gabrina, respinta da Filandro, inganna il marito Argeo e lo convince che l’onesto giovane sia in realtà un traditore. Adirato, egli insegue dunque Filandro, lo ferisce e lo fa rinchiudere in una torre. La donna ordirà l’omicidio di Argeo per sposare Filandro, ma si stancherà presto anche del secondo marito, che subirà la stessa sorte del primo.
    “Suade lupis ut insaniant” ovvero “induci i lupi ad impazzire” è la sentenza erasmiana (Adagia, 4.4.15) che sintetizza il comportamento della perfida Gabrina, la quale aizza il marito contro l’amico.

    Gabrina inganna Argeo
    Vincenzo e Michele de Barberis, XVI secolo.
    Palazzo Besta, salone d’onore.

  • Sullo sfondo, Gabrina si avvicina alla torre per parlare con Filandro imprigionato; in secondo piano è rappresentata di nuovo la torre, ma Gabrina è assente, allusione ai sei mesi nei quali la donna resta lontana. In primo piano, una delle ultime visite alla prigione: Filandro e Gabrina discutono animatamente e la donna ottiene infine l’aiuto del giovane per uccidere il barone Morando, che la importuna approfittando dell’assenza di Argeo. Si tratta in realtà dell’ennesima macchinazione di Gabrina, e Filandro, convinto di pugnalare Morando, ucciderà invece Argeo.
    La sentenza latina è quasi completamente cancellata, sono leggibili soltanto tre lettere: “..ale..”, in quanto la cornice venne interrotta dall’innalzamento della porta d’ingresso.

    Gabrina visita Filandro e lo inganna per fargli uccidere Argeo
    Vincenzo e Michele de Barberis, XVI secolo.
    Palazzo Besta, salone d’onore.

  • Minacciando Filandro di denunciarlo per avere assassinato Argeo, Gabrina costringe il giovane ad acconsentire alle nozze: sotto il portico si vede dunque Filandro infilare l’anello al dito di Gabrina. Presto però la donna si stanca anche del nuovo marito e decide di ucciderlo. Sulla destra, Gabrina corrompe il medico affinché avveleni Filandro, mentre al piano superiore è raffigurato l’ennesimo inganno di Gabrina: la donna chiede al medico di bere la pozione prima di Filandro, fingendo di voler dimostrare che non si tratti di veleno e assiste così alla morte di entrambi.
    Del motto sottostante si legge “isti prandium”, frammento dell’adagio erasmiano “calidum prandium comedisti”, derivato da Plauto e riferito a chi paga con l’indigestione un pasto consumato troppo caldo, particolarmente adatto a chiosare l’indigesto pasto di Filandro e, ancor più, del medico corrotto, avvelenato con la pozione da lui stesso preparata

    Gabrina uccide Filandro e il medico
    Vincenzo e Michele de Barberis, XVI secolo.
    Palazzo Besta, salone d’onore.

Storia di Ginevra

  • Dalinda, damigella della principessa Ginevra, accoglie l’amante Polinesso. Egli però, invaghitosi di Ginevra, convince Dalinda ad aiutarlo a conquistare la fanciulla, ma Ginevra è a sua volta innamorata di Ariodante.
    “[…]meor acrothima colosso adaptare” è il motto che, per quanto frammentario, permette di risalire all’erasmiano “Pygmaeorum acrothinia colosso adaptare”, “adattare le armature dei Pigmei al Colosso” (Adagia, 4.1.90) , proverbio che indica un’impresa vana o stolta, come quella di Polinesso.

    Dalinda accoglie Polinesso
    Vincenzo e Michele de Barberis, XVI secolo.
    Palazzo Besta, salone d’onore.

  • Dalinda comunica a Polinesso che Ginevra non corrisponde il suo amore; sdegnato per il rifiuto, Polinesso decide di separare Ginevra e Ariodante, e racconta al giovane di essere amato da Ginevra.
    Il motto che accompagna il riquadro è “Lampo(n) iurat per anserem”, sentenza che Erasmo (Adagia, 4.1.34) traduce da Aristofane (Gli uccelli, 521), e che significa “Lampone giura sull’oca”, ovvero fa un giuramento sapendo che non terrà fede alla parola. Il riferimento è alla doppia menzogna di Polinesso: nei confronti di Dalinda, che dice di amare, pur volendo sposare Ginevra per convenienza, e nei confronti di Ariodante e di Ginevra, ai danni dei quali trama il suo inganno.

    Dalinda e Polinesso; Polinesso e Ariodante
    Vincenzo e Michele de Barberis, XVI secolo.
    Palazzo Besta, salone d’onore.

  • Polinesso convince Dalinda ad abbigliarsi come Ginevra e, favorito dal crepuscolo che permette di riconoscere gli abiti ma non i tratti del viso, convince Ariodante di essere amato da Ginevra. Il giovane, credendosi tradito, tenta il suicidio, trattenuto a stento dal fratello Lurcanio.
    “Bis interimit qui suis armis perit”, “muore due volte chi perisce per causa propria” (Adagia, 4.1.96), adagio riferito al tentativo di suicidio del giovane Ariodante.

    Polinesso inganna Dalinda e Ariodante
    Vincenzo e Michele de Barberis, XVI secolo.
    Palazzo Besta, salone d’onore.

  • Convinto di essere stato tradito dall’amata Ginevra, Ariodante tenta il suicidio gettandosi in mare. La sentenza “In fluctu desilire supremum” deriva verosimilmente dall’erasmiano “a quinque scopulis desilire in fluctus”(Adagia, 3.2.6), riferito a coloro che arrivano a minacciare un gesto estremo, pur di porre fine ad una sfortunata condizione presente. Allo stesso modo, Ariodante afferma di preferire la morte alla sofferenza causata dal presunto tradimento, salvo poi cambiare parere e nuotare fino alla riva opposta, dove un eremita gli offre rifugio.

    Ariodante si getta in mare
    Vincenzo e Michele de Barberis, XVI secolo.
    Palazzo Besta, salone d’onore.

  • Convinto di essere stato tradito dall’amata Ginevra, Ariodante tenta il suicidio gettandosi in mare. La sentenza “In fluctu desilire supremum” deriva verosimilmente dall’erasmiano “a quinque scopulis desilire in fluctus”(Adagia, 3.2.6), riferito a coloro che arrivano a minacciare un gesto estremo, pur di porre fine ad una sfortunata condizione presente. Allo stesso modo, Ariodante afferma di preferire la morte alla sofferenza causata dal presunto tradimento, salvo poi cambiare parere e nuotare fino alla riva opposta, dove un eremita gli offre rifugio.

    Lurcanio denuncia Ginevra e Rinaldo salva Dalinda
    Vincenzo e Michele de Barberis, XVI secolo.
    Palazzo Besta, salone d’onore.

  • Ginevra, ingiustamente accusata da Lurcanio per avere accolto un uomo nelle sue stanze, viene condannata a morte. Per salvarla, un misterioso cavaliere sfida Lurcanio, ma il duello viene interrotto da Rinaldo, il quale è venuto a conoscenza dell’inganno tramato da Polinesso ai danni della principessa e si presenta a corte per dimostrarne l’innocenza.
    “Aurum igni probatum”, “l’oro si vede alla prova del fuoco” (Adagia, 4.1.58) sottolinea la precarietà delle trame di Polinesso e il trionfo della verità.

    Rinaldo interrompe il duello
    Vincenzo e Michele de Barberis, XVI secolo.
    Palazzo Besta, salone d’onore.

  • Rinaldo uccide Polinesso; Ginevra, la cui innocenza è finalmente dimostrata, può convolare a nozze con Ariodante, mentre Dalinda, complice di Polinesso, del quale tuttavia ignorava le perfide intenzioni, viene perdonata dal re e si ritira in convento.
    “Flagitio” è l’unico frammento superstite del motto posto a chiosare la scena, riconducibile al motto “Flagitiorum turpis exitus”, “turpe è l’esito dei misfatti” (Adagia, 3.10.16), a ribadire il trionfo della verità e la punizione dei malvagi.

    Rinaldo uccide Polinesso
    Vincenzo e Michele de Barberis, XVI secolo.
    Palazzo Besta, salone d’onore.

Storia di Angelica

  • Ruggiero libera Angelica, che era stata legata ad una roccia per essere data in pasto ad un mostro marino. Il giovane conduce in salvo la fanciulla volando sull’ippogrifo, fantastico animale per metà cavallo e per metà grifone. Giunto su un’isola, però, Ruggiero dimentica la promessa sposa Bradamante e si invaghisce di Angelica.
    “Nichil ad fides” (sic), “In disaccordo con la lira”, (Adagia, 1.5.46) proverbio che Erasmo riprende da Luciano e da Plutarco per indicare un comportamento incoerente.

    Ruggiero salva Angelica
    Vincenzo e Michele de Barberis, XVI secolo.
    Palazzo Besta, salone d’onore.

  • Angelica conosce bene il potere dell’anello che Ruggiero le ha messo al dito e sa che mettendolo in bocca diventerà invisibile: in questo modo la principessa sfugge alle attenzioni del giovane, che la cerca invano. Sulla destra si vede infatti Angelica in sella ad un animale fantastico, invenzione del pittore che materializza così la sparizione della fanciulla.
    La sentenza che accompagna l’immagine è “Magis varius quam hydra” (Adagia 1.1.95), “Più vario dell’idra”, animale mitologico con corpo di drago e nove teste, capaci di rigenerarsi se tagliate. Il commento si riferisce al personaggio multiforme di Angelica, al contempo bellezza irresistibile, principessa desiderabile ma altera, apparentemente indifesa ma in realtà indipendente grazie alla sua abilità nelle arti magiche.

    Angelica sfugge a Ruggiero grazie all’anello magico
    Vincenzo e Michele de Barberis, XVI secolo.
    Palazzo Besta, salone d’onore.

Allegorie

  • Le donne altere e sdegnose, che hanno rifiutato giovani innamorati di loro, vengono punite e condannate a morte; anche Angelica è nel novero e viene buttata da una torre, ma i venti, ammirati di fronte alla sua bellezza, la sostengono nella caduta e le salvano la vita. In questo caso, la fonte letteraria non è l’Orlando furioso ma una delle sue continuazioni, i Tre primi canti di Marfisa di Pietro Aretino.
    La sentenza che accompagnava il riquadro è perduta.

    Punizione delle donne ingrate in amore
    Vincenzo e Michele de Barberis, XVI secolo.
    Palazzo Besta, salone d’onore.

  • La Gelosia, mostro dai mille occhi e dalla lunga coda di serpente, con altre serpi in luogo dei capelli, assale Rinaldo e lo avvolge nelle sue spire. Fortunatamente sopraggiunge lo Sdegno, cavaliere in lucente armatura con fiammelle rosse su fondo giallo come insegna, che mette in fuga la Gelosia grazie alla propria mazza infuocata.

    Lo Sdegno libera Rinaldo dalla Gelosia
    Vincenzo e Michele de Barberis, XVI secolo.
    Palazzo Besta, salone d’onore.

  • L’arcangelo Michele è incaricato da Dio di trovare la Discordia e di condurla al campo saraceno ed egli la trova là dove pensava invece di trovare il Silenzio: nelle chiese, nei monasteri e nei palazzi di giustizia. La Discordia indossa una veste multicolore, tiene in mano lettere e documenti ed è circondata da notai, procuratori ed avvocati.
    Il motto sottostante recita “Foenum in cornu gerunt”, molto vicino all’erasmiano “Foenum habet in cornu” (Adagia, 1.1.81), che richiama l’immagine di un toro potenzialmente pericoloso e aggressivo perché troppo sazio, creando un paragone con i potenti della terra, arroganti e in discordia fra loro.

    Allegoria della Discordia
    Vincenzo e Michele de Barberis, XVI secolo.
    Palazzo Besta, salone d’onore.

  • L’arcangelo Michele cerca il Silenzio per condurlo al campo cristiano, in modo da favorirne l’avanzata contro i saraceni: nella valle del Silenzio si trova anche la grotta del Sonno, raffigurata al centro. A sinistra, seduta a terra, è la Pigrizia, mentre al centro si vedono il Sonno e l’Oblio, che non ascolta e che rifiuta di riportare qualsiasi ambasciata. Sulla destra, con il mantello bruno, si vede il Silenzio, che fa cenno a chi si avvicina di non parlare e di allontanarsi.
    Accompagna il riquadro il motto “Fuge, tace et disce”, “allontanati, taci e impara”.

    La valle del Silenzio
    Vincenzo e Michele de Barberis, XVI secolo.
    Palazzo Besta, salone d’onore.

  • La Cupidigia, raffigurata come una volpe con testa di lupo, orecchie d’asino e zampe di leone, divora chiunque la assecondi. Ciononostante, i potenti della Terra continuano ad adorarla come un idolo.
    La sentenza latina che un tempo si leggeva sotto al riquadro è purtroppo perduta.

    La Cupidigia
    Vincenzo e Michele de Barberis, XVI secolo.
    Palazzo Besta, salone d’onore.

  • Quattro personificazioni distruggono l’idolo pagano che rappresenta la Cupidigia. Si tratta verosimilmente delle quattro virtù cardinali: la Giustizia con la lancia, la Temperanza con il mazzuolo, la Prudenza con il compasso e la spada e la Fortezza con la colonna spezzata. Va rilevato tuttavia che gli attributi delle virtù verranno canonizzati da Cesare Ripa nella sua Iconologia nel corso del Seicento, mentre a queste date sussiste una profonda variabilità e l’identificazione potrebbe non essere univoca.
    Il proverbio latino è ormai completamente cancellato.

    Allegoria della Cupidigia. Uccisione del mostro
    Vincenzo e Michele de Barberis, XVI secolo.
    Palazzo Besta, salone d’onore.

  • L’ultimo riquadro allegorico rappresenta probabilmente l’Ozio, padre di tutti i vizi, descritto nel Furioso come un uomo grasso seduto su una testuggine e accompagnato da strani personaggi. La scena, di dubbia interpretazione, non corrisponde esattamente ad alcun episodio ariostesco, e potrebbe anche riferirsi ad un’altra fonte, come accade nel riquadro con la Punizione delle donne ingrate in amore.
    Ad accompagnare il riquadro, il motto “vento ducimur”, “siamo in balia del vento”, questa volta non tratto dagli Adagia erasmiani. Di antica tradizione, la sentenza si trova ad esempio nel libro di Giobbe, dove l’uomo è paragonato ad una foglia in balia del vento.

    XX allegoria 6 – l’Ozio
    Vincenzo e Michele de Barberis, XVI secolo.
    Palazzo Besta, salone d’onore.

Storia di Orlando

  • Astolfo vola sul carro di Elia insieme a San Giovanni per raggiungere la luna, dove si raduna tutto
    ciò che sulla terra viene perduto. Ad Astolfo il compito di recuperare il senno smarrito da Orlando,
    che potrà così rinsavire ed assicurare la vittoria all’esercito di Carlo Magno.
    Il motto che un tempo accompagnava il riquadro risulta purtroppo irrimediabilmente perduto.

    Astolfo in volo verso la luna
    Vincenzo e Michele de Barberis, XVI secolo.
    Astolfo in volo verso la Luna, Palazzo Besta, salone d’onore.

Gallery

TALAMONA
PALAZZO VALENTI
SONDRIO
CASTELLO MASEGRA
CASTIONETTTO - CHIURO
TORRE DI CASTIONETTO
COSA FARE / VEDERE A TEGLIO

Baciato dal sole in posizione panoramica sul versante retico della Valtellina, Teglio è il luogo ideale per la crescita di colture tradizionali come la vite, la segale e il grano saraceno, quest’ultimo ingrediente principale dei pizzoccheri, il più famoso piatto della cucina valtellinese e che nasce proprio in questo territorio. (la ricetta originale è custodita e tutelata dall’Accademia del Pizzocchero)
Teglio è un borgo tutto da scoprire che offre molte cose da vedere e visitare. Tra queste la Torre De Li Beli Miri, in posizione panoramica e con vista sulla Valtellina; a breve distanza dalla torre si trova la Chiesa Parrocchiale di S. Eufemia, punto di partenza della tappa Teglio-Tirano del Cammino Mariano delle Alpi. 

A Teglio è d’obbligo poi una visita a Palazzo Besta, una delle dimore rinascimentali più belle della Lombardia ed unico museo statale della provincia di Sondrio, oltre che essere luogo dell’Orlando Furioso in Valtellina.
La salvaguardia di questi aspetti storici e artistici, così come l’accoglienza di qualità e  l’attenzione alla natura e alla buona cucina fanno di Teglio una Città Slow certificata, nella rete internazionale delle Città del buon vivere.
Per maggiori informazioni https://www.valtellina.it/it/teglio